Sudan: una crisi mai risolta. La resistenza “silenziosa” delle tribù Nuba

di Andrea Bartolini – Nell’ultimo anno il più lungo conflitto nella storia recente del continente africano ha ufficialmente trovato termine. La notizia della separazione delle regioni meridionali del paese, dopo un sanguinoso conflitto che ha causato centinaia di migliaia di vittime e un numero esorbitante di profughi e sfollati, ha trovato poco spazio nei media italiani, più interessai a riprendere le immagini di George Clooney in missione nel neonato stato del Sud Sudan piuttosto che a fornire un resoconto chiaro delle ragioni del conflitto e delle future conseguenze e prospettive aperte dal referendum avvenuto nelle regioni meridionali.

Alla scarsa attenzione dimostrata verso una situazione vista come lontana e estranea a noi si è poi aggiunta la semplificazione e stereotipizzazione con cui il conflitto sudanese è stato descritto. La tanto cara, specialmente dopo gli avvenimenti del 11 settembre, contrapposizione tra cristiani, al Sud, e musulmani, al Nord, è stata sbandierata come la causa centrale delle violenze, ma non spiega perché i governi di Khartoum abbiamo indirizzato i propri attacchi anche contro comunità, in tutto o in parte, islamiche – si pensi al Darfur e ai Monti Nuba – che non si sentivano rappresentate dal modello integralista incarnato dal National Islamic Front di Hassan Turabi, alleato al governo dell’attuale presidente sudanese Omar Al Bashir. L’idea di uno scontro etnico tra arabi oppressori e africani, dimentica il fatto che le violenze hanno contrapposto segmenti di questi stessi gruppi etnici – inoltre qualcuno dovrebbe spiegare a noi, ma soprattutto ai diretti interessati, chi siano questi generici “africani”, che forse in maniera per lo meno pregiudiziale alcuni giornalisti identificano con le persone di colore, e in qual modo allora dovrebbero essere diversi dai loro connazionali e dalle popolazioni a nord del Sahara, facendo infatti tutti ugualmente parte del continente africano. Infine spesso si è riassunto il tutto in un conflitto fra Nord e Sud, nel desiderio di secessione delle popolazioni meridionali storicamente oggetto di depredazione e violenze da parte dei governi di Khartoum, dimenticando che a partire dagli anni ’80 gli scontri hanno coinvolto zone di confine amministrativamente appartenenti al Nord – Darfur, Kordofan, Blue Nile -, quelle che lo studioso Douglas Johnson nella sua opera “Root Causes of Sudanese Civil War” chiama “marginalized areas”.

Quali sono dunque le cause di un conflitto che ha devastato per più di 50 anni il Sudan, coinvolgendo l’intero paese in una spirale di morti e devastazioni, con conseguenze che ancor oggi, a 6 anni dalla firma del trattato di pace e a pochi mesi dal plebiscitario referendum sull’indipendenza delle regioni meridionali, minano il ritorno alla normalità?

L’analisi di una realtà ai più sconosciuta e spesso dimenticata dai tradizionali canali di comunicazione può aiutare a districarsi nel mosaico sudanese: si tratta della regione delle Nuba Mountains. Le tribù Nuba –  musulmane ma anche cristiane, amministrativamente parte del Nord ma combattenti per due decenni affianco dei ribelli meridionali, storicamente influenzate dalla cultura araba ma profondamente legate alla propria identità, uniti ai separatisti del Sud nella lotta contro Khartoum ma sostenitori di un nuovo Sudan unito – rappresentano l’esempio di come le generalizzazioni siano fuorvianti e di come sia necessaria un’analisi seria e approfondita.

I Nuba: Chi sono costoro? Ragioni ed evoluzione del conflitto civile

Nonostante il nome, i Monti Nuba  – nell’attuale regione del Kordofan a sud di Khartoum e al confine con il nuovo stato del Sud Sudan – non sono un esteso complesso montuoso, si tratta invece di una zona vasta quasi quanto l’intera Scozia, estremamente varia e caratterizzata da valli e pianure a cui si alternano colline pietrose e rilievi che non superano i 1400 metri. La cultura dei popoli   stanziati da millenni in queste aree ha lungamente attratto antropologi, come Roland Stevenson che ne descrisse le cerimonie in cui centrali erano la musica e la lotta rituale, ma al di là di questo poco spazio è stato concesso alla loro storia e ai fatti degli ultimi 30 anni.

Il conflitto che dai primi anni ’80 ha devastato queste zone ha radici lontane. Per comprenderlo è necessario fare un passo indietro e concentrare l’attenzione su due problematiche, a tutt’oggi invero irrisolte, attorno a cui si sono incentrate le rivendicazioni dei ribelli guidati da Yousif Kuwa Mekki, comandante Nuba delle truppe del SPLM nel Southern Kordofan: la questione della terre e il processo di assimilazione forzata al modello arabo-islamico integralista.

Da sempre queste zone sono state oggetto di raid schiavistici e depredazioni da parte dei vicini potentati, la più sanguinosa delle quali fu condotta sotto il regime turco-egiziano dal governatore Ali Pasha nel 1820, e delle tribù nomadi arabe dei Baqqara alla ricerca di bacini d’acqua dolce per il bestiame. Quando nel 1899 fu siglato da Gran Bretagna e Egitto l’accordo di codominio sulle terre sudanesi, la questione delle terra si trasformò da disputa tra comunità locali a affare di Stato. Fondamentale, infatti, era per le autorità coloniali il controllo del territorio e delle risorse in esso presenti, motivo per cui vennero condotte contro le tribù Nuba che non volevano sottomettersi al nuovo potere diverse spedizioni a cui parteciparono attivamente anche i gruppi Baqqara interessati ad occupare le terre dei vicini. Ma più che le violenze, a segnare la sorte futura di queste tribù fu l’approvazione della Land Settlement and Registration Ordinance nel 1925, che introdusse la registrazione obbligatoria dei terreni, in assenza delle quale le proprietà potevano essere confiscate dal governo in quanto suolo statale. Per capire la portata di questo evento, bisogna considerare che in queste zone non esisteva alcun documento ufficiale sulla proprietà delle terre, tra l’altro il grado di alfabetizzazione era molto basso, per di più se si considera la conoscenza dell’inglese e dell’arabo, e non è dunque difficile capire cosa avvenne e chi furono i veri profittatori. Se è vero, però, che gli effetti di questa legge furono limitati, il principio legale costituì la base per quella che poi sarebbe stata la politica economica dei governi di Khartoum dagli anni ’70 in avanti e la causa principale del sollevamento popolare.

Sulla scia delle norme del periodo coloniale, infatti, l’emanazione del Unregistered Land Act del 1970 voluta dal regime golpista del generale Nimeiri, che sostituì al potere il governo militare di Abboud dopo una breve e caotica parentesi repubblicana, trasferì allo Stato ogni possedimento non registrato, compresi boschi e foreste, anche se occupato e coltivato, abolendo le native authorities e le norme consuetudinarie che da secoli regolavano le dispute sulle terra. In questo modo interi villaggi vennero confiscati, spesso ricorrendo all’aiuto delle milizie islamiche, e rivenduti alle banche islamiche o a esponenti militari e amministrativi fedeli a Khartoum, e a Turabi in modo particolare. Gli abitanti, allontanati dalle loro case e privati di ogni mezzo di sostentamento, non poterono altro che migrare verso le grandi città o offrirsi come manodopera a basso costo nelle grandi piantagioni meccanizzate private, le quali nell’ottica di Khartoum avrebbero dovuto trasformare il Sudan nel maggiore produttore di grano e cotone africano. La situazione fu ulteriormente aggravata dal fatto che gli effetti della legge interessarono anche le comunità Baqqara: non potendo più pascolare liberamente il bestiame nei campi ora occupati da latifondi, iniziarono a invadere le ultime terre che i loro vicini ancora possedevano e, sostenuti sempre più direttamente dal governo, dettero il via a una escalation di violenze e aggressioni. Schiacciati dal governo centrale e dalle milizie arabe ormai finanziate apertamente da Khartoum, nel novembre del ’84 i popoli Nuba aderirono alla rivolta scoppiata l’anno precedente nelle regioni meridionali del Sudan. La guerra nelle Nuba Mountains non impedì tuttavia alle istituzioni centrali di proseguire la politica di confische iniziata un ventennio prima, anzi vi dette un ulteriore stimolo. Il conflitto, infatti, costrinse migliaia di civili alla fuga, liberando ulteriori terre per le “mechanized farms” e facendo crescere il numero di affamati disposti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni. Mentre le truppe governative e le milizie arabe scatenavano una violenta offensiva per eliminare la resistenza del  battaglione guidato da Kuwa, la caduta di Nimeiri e il fallimento dell’esperienza repubblicana seguente aprirono la strada all’ascesa del generale Omar Al Bashir che si impadronì con la forza del potere nel giugno del 1989. Questa data segnò una nuova fase nel conflitto interno, la guerra divenne totale: non si trattava più di sconfiggere la guerriglia militarmente, piuttosto il vero obiettivo era ora la distruzione della società Nuba. Interi villaggi furono dati alle fiamme, i centri di assistenza medica e le scuole chiusi, migliaia furono i morti e i sopravvissuti andarono a ingrossare le fila degli sfollati interni rinchiusi nelle cosiddette “peace cities” e utilizzati come manodopera nelle grandi piantagioni. Ironicamente a peggiorare la situazione e a dare ancor più slancio alla politica di esproprio delle terre contribuirono gli aiuti internazionali incanalati attraverso la Operation LifeLine Sudan (OLS) voluta dalle Nazioni Unite. Assediati dagli scontri, perseguitati dalle milizie e privi di ogni rifornimento alimentare, diversi capi locali accettarono la proposta governativa di abbandonare i propri territori, concentrandosi nelle aree governative dove solo avrebbero potuto accedere agli aiuti internazionali.

Proprio questi due elementi, peace cities e aiuti internazionali, rappresentano il punto di incontro fra le due questioni sopra citate come centrali nella rivolte tra i Monti Nuba. Della problematica della terra si è già parlato, è dunque necessario affrontare ora il processo di assimilazione forzata.

Innanzitutto è necessario però distinguere l’assimilazione al modello culturale arabo-integralista dominante dal cosiddetto processo di islamizzazione. La diffusione del credo musulmano fin dal medioevo non è stato, tranne in tempi recenti, un fenomeno violento. Commerci e migrazioni, insieme all’attività degli ordini sufi, sono stati i principali canali attraverso cui l’Islam si è insinuato nei territori sudanesi e progressivamente amalgamato alle credenze locali. La cultura araba, invece, non ha mai mostrato questo carattere di flessibilità e apertura, ma anzi si è sempre posta in contrapposizione alle società indigene. Fino agli anni ’70 il sentimento di superiorità ha motivato aggressioni, stupri, saccheggi, raid schiavistici, d’altra parte le genti “africane” non erano che abeed (schiavi), musulmani sì ma non arabi. Non vi era però un preciso piano di sostituzione delle identità tribali con quella araba, piuttosto avveniva il rifiuto della propria origine per sfuggire alla discriminazione e agli abusi e, specialmente  tra i giovani, l’attrazione esercitata da una cultura e un sistema di vita che si ergeva a simbolo della modernità.

La situazione iniziò a mutare con l’ascesa di Turabi sulla scena politica sudanese a partire dagli anni ’70. A 30 anni dall’indipendenza il Sudan era privo di un elemento capace di amalgamare le diverse popolazioni e la decennale guerra civile al Sud aveva dimostrato come il processo di assimilazione alla cultura araba, e in questo caso anche islamica, fosse tutt’altro che naturale e inevitabile. Si poneva dunque il problema dell’unità nazionale e di costruire una base comune attorno a cui formare una nuova società sudanese unita. La soluzione non poteva che essere per Turabi lo sradicamento, anche forzato, delle tradizioni particolari in nome della superiorità di quelle arabe e l’imposizione di un modello integralista islamico:  non diffusione del credo musulmano, bensì di una visione estremista incarnata dal NIF; non pacifico e legato all’attività missionaria come nel passato, ma violento e aggressivo; non diretto unicamente verso i fedeli di diverse religioni, ma rivolto anche ai musulmani che non si riconoscevano nei dettami integralisti. Culmine di questa virata aggressiva fu l’approvazione della sharia come legge suprema e la proclamazione nel ’92 dello jihad  contro le comunità Nuba. Ora esercito e milizie avevano una base morale e giuridica per compiere le peggiori nefandezze, mentre i vertici del NIF erano pronti per scatenare la politica di distruzione della cultura e dei popoli Nuba, cristiani o musulmani che fossero. Sotto il loro comando vennero compiute le peggiori nefandezze: massacri, stupri, trasferimenti forzati. Interi villaggi vennero distrutti, i campi resi insicuri dalle mine e i depositi di cibo dati alle fiamme per provocare carestie; i sopravvissuti trasformati in schiavi e trasferiti nelle peace cities, gli uomini forzatamente coscritti nell’esercito o costretti a lavorare nelle aziende meccanizzate, i bambini separati dalle famiglie e rieducati secondo i dettami integralisti e inviati a combattere contro i loro stessi fratelli, le donne trasformate in concubine e costrette a partorire figli che avrebbero dovuto costituire una nuova generazione di discendenza araba.

Le “città della pace” rappresentano l’esempio di come le due principali questioni che hanno scatenato la rivolta nelle terre Nuba siano interrelate tra loro.

Nate come luogo dove riversare le migliaia di squatters accampati intorno a Khartoum che rappresentavano una fonte di imbarazzo per le autorità centrali di fronte alla comunità internazionale, ben presto rivestirono un ruolo ben più complesso. Situate nelle aree di conflitto garantivano un vantaggio strategico nella lotta alla guerriglia: da un lato sarebbe stato impossibile per il SPLA ingaggiare scontri senza causare perdite proprio tra la popolazione per la cui libertà proclamava di combattere; dall’altro la presenza di centri dove, nonostante le precarie condizioni di vita in cui i civili dovevano sopravvivere, era possibile accedere a limitati servizi di base e aiuti internazionali, avrebbe favorito trasferimenti spontanei di genti stanche delle privazioni della guerra, liberando fra l’altro, senza inutili sprechi di energia, terreni per i grandi latifondi e garantendo una ricca riserva di manodopera a basso costo. Ma le città della pace avevano anche un altro obiettivo, dar sfogo alla violenta politica di arabizzazione voluta da Turabi. I servizi di base, le cure mediche e gli aiuti alimentari, gestiti da organizzazioni filo-governative, furono condizionati all’assimilazione al modello socio-culturale arabo-integralista, solo a chi accettava di abbandonare le proprie tradizioni, la propria lingua e religione, a chi rinnegava la propria gente e la causa guerrigliera era permesso ricevere medicine e cibo. Per tutti gli altri non rimaneva che subire ogni sorta di abusi, privazioni e maltrattamenti, non erano d’altronde altro che schiavi e apostati, espressione di comunità rozze e primitive, senza alcun diritto tanto meno quello alla vita, come veniva insegnato nelle scuole coraniche ai figli dei profughi o come recitava la scritta sulle loro magliette “children of new Sudan”.

Pace? Il futuro incerto nelle Nuba Mountains

Se dunque queste sono le cause del conflitto scatenatosi nella regione dei Monti Nuba, bisogna tuttavia sottolineare come da parte di Khartoum fosse predominante l’interesse economico rispetto agli obiettivi assimilazionisti, prova ne sia l’allontanamento indolore di Turabi, divenuto uno scomodo alleato per le connessioni con il terrorismo islamico – a causa del sostegno a Bin Laden il  Sudan era infatti rimasto isolato a livello internazionale e soggetto a dure critiche e pressioni dall’Occidente. Non si può però dimenticare che proprio la volontà di eliminare le differenze etnico-religiose per creare un grande Sudan unito sotto il modello arabo-islamico integralista ha motivato e giustificato gravi violazioni dei diritti umani. Dunque sebbene la lotta contro l’assimilazione forzata non possa essere considerata la causa scatenante del conflitto nelle Nuba Mountains, nato principalmente in risposta alla marginalizzazione economico-sociale e agli espropri susseguitisi dagli anni ’70, la difesa della propria identità e dignità, e sempre più della propria sopravvivenza come gruppo in quanto tale, è divenuta il collante attorno a cui si è consolidata la resistenza Nuba e si sono incentrate le richieste avanzate durante i negoziati che hanno portato alla firma del Comprehensive Peace Agreement del 2005 che ha posto ufficialmente termine al conflitto interno.

In realtà la situazione nei Monti Nuba è tutt’altro che risolta. Il trattato, infatti, non ha affrontato la disputa sulle terre – nonostante sia stata creata la Land Commission non sono state previste restituzioni o risarcimenti per le migliaia di sfollati ancora presenti nei campi profughi -, le leggi islamiche sono ancora in vigore, le violenze e gli abusi da parte delle ex milizie arabe, ora sciolte, sono all’ordine del giorno, mentre ogni richiesta di una maggiore rappresentazione politica rimane inascoltata. A pochi mesi dalla separazione del Sud, in queste terre di confine si sta assistendo ad una escalation che potrebbe portare alla ripresa della lotta interna, resta solo da capire il ruolo che il neo nato stato guidato da Silva Kirr potrebbe rivestire: si concentrerà su sé stesso evitando di intraprendere una guerra che sarebbe ora un conflitto fra stati, o accorrerà ad appoggiare gli ex alleati non rinnegando la sua stessa ideologia di liberazione?

Il futuro non si può conoscere, ma il passato potrebbe mostrarci una via d’uscita: si tratta della storia dei rapporti fra le comunità arabe Baqqara e i Nuba. Negli anni della guerra civile appoggiate da Khartoum le prime si sono rese colpevoli di atroci violenze e abusi. Tuttavia è stato proprio il governo centrale a spingerli in questa direzione privandoli di ogni diritto sulle loro terre e consegnandole ai grandi latifondi, impedendo di fatto loro di sostenersi con il tradizionale allevamento nomade – motivo per cui alla ricerca di pascoli hanno invaso le zone Nuba -, la stessa politica di assimilazione non gli ha risparmiati, erano sì arabi e musulmani, ma non integralisti. Inoltre carestie e scontri hanno mietuto vittime da ambo le parti. Di fronte a tutto ciò già alla fine dagli anni ’90 si è verificato un processo inaspettato, o forse no. Da secoli infatti le due comunità erano andate amalgamandosi, pur non mancando episodi di violenza, grazie agli stretti rapporti commerciali e ai sempre più frequenti matrimoni misti. La guerra aveva fatto dimenticare questo passato comune, ma quando le due comunità scelsero di sviluppare un dialogo pacifico per sfuggire al circolo vizioso del conflitto interno, il solo davvero stupito fu il governo di Khartoum, che naturalmente rispose ostacolando i negoziati locali attraverso azioni di spionaggio, corruzione e violenze contro le popolazioni e i loro leader.

Sebbene questo processo sia stato interrotto, sebbene le recenti violenze sembrino voler dimostrare il contrario, i due gruppi condividono non solo la stessa terra  ma anche lo stesso incerto futuro. Se dunque si vuole evitare un nuovo sanguinoso conflitto, la ripresa del dialogo tra Nuba e Baqqara può rappresentare una via d’uscita di fronte al “dis-interesse” di Khartoum per la soluzione delle questioni che hanno scatenato il conflitto e che ancor oggi minano la pace.

Andrea Bartolini è laureato in Scienze Politiche all’università di Firenze e autore del testo “Sudan: un conflitto dimenticato. La lotta del popolo Nuba per non scomparire” edito da Harmattan Italia, Ottobre 2010, Torino. Ha collaborato con diverse organizzazioni non governative italiane e con l’organizzazione keniana Koinonia da tempo attiva nei Monti Nuba.