Campi di sterminio dimenticati- sull’oblio e negazionismo della storia, Majdanek riporta alla memoria il “perfezionismo” della macchina della morte.
Di Wirginia Loboda – Majdanek, 30 km dalla frontiera con la Bielarus, 280 km da Varsavia, il secondo campo di sterminio dopo Auschwitz, per la sua grandezza, uno dei principali simboli del genocidio, oggigiorno quasi dimenticati. Quando i negazionisti della storia dello sterminio si fanno sempre più numerosi, a Majdanek, la morte è ancora viva.
«Mamma, dove vai? Le avevo chiesto. Lei mi diede un bacio. Aveva detto che andava a farsi una doccia. Non è mai uscita da quella camera». La voce di una donna adulta intreccia la sua storia al coro dell’Ave Maria, un addio alla vita, che rimbomba in una delle baracche del museo di Majdanek. L’arte visuale e quell’uditiva sono state mescolate in questo piccolo edificio in maniera tale da riportare il visitatore all’orrore di settant’anni fa. In mezzo alla stanza un grande cimitero di candele elettriche e le voci che girano attorno, come se fossero ancora presenti. Si respira l’orrido, la disperazione e la morte. É tutto un brivido, che aumenta al pensiero che tutto ciò è stato frutto della mano umana, preparato a tavolino,con astuzia e precisione.
Majdanek si trova a 4 km dal centro di Lublino, città universitaria, conosciuta per la nomina della Facoltà di Medicina, e per la particolarità e la bellezza del centro storico di questa città frontaliera. A piccoli passi dalla vita che danza tra i piccoli “caffè”, bar, ristoranti, tra gli studenti polacchi ed internazionali, 270 ettari di campo ricordano una delle più orride disumanità della storia.
Costruito nel 1941, il campo si divideva in 4 settori, segmento SS, complesso agricolo e la parte dei detenuti. La maggior parte delle baracche venne distrutta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con quale scopo? Probabilmente quello di celare la verità dei fatti, come quella che Majdanek non fu soltanto un campo di sterminio e prigionia per gli Ebrei, provenienti da 30 Paesi diversi, ma anche per gli stessi sovietici, che costituirono, la terza categoria più presente nel campo. I primi detenuti del campo di concentrazione furono proprio i 5 mila prigionieri sovietici, impiegati per la costruzione di Majdanek e uccisi nel giro di poche settimane. Nell’autunno del 1941 il compito di costruire altre 50 baracche per i 50 mila prigionieri sovietici toccò invece ai Polacchi e agli Ebrei.
E’ difficile anche parlare separatamente, come fanno moltissimi documenti e libri di testo, dei Polacchi degli Ebrei, perché, pur nonostante la diversità di religione, moltissimi Ebrei erano Polacchi, cresciuti sul suolo polacco e ben radicati nella società. Molti di loro vivevano a Lublino e nei dintorni. Fatto indiscutibile è che furono 18 400 Ebrei, di discendenza diretta e non, ad essere stati massacrati durante il cosiddetto “mercoledì sanguinoso”, il 3 Novembre 1943 .
Un’altra curiosità è che alla fine della seconda guerra mondiale, Majdanek si trasformò in un campo di prigionia per i membri del governo polacco della Resistenza. L’ultima, particolarmente attuale a causa delle investigazioni fatte intorno alla catastrofe di Smolensk avvenuta l’anno scorso, è che i detenuti sapevano e temevano lo sterminio di Katyn, prima ancora che la notizia del massacro dell’intellighenzia polacca giungesse agli alleati. Una serie di tristi coincidenze o una ben voluta strategia politica?
Majdanek, conosciuto come uno dei simboli d’olocausto, deteneva cittadini di quasi 30 nazionalità, tra cui in maniera predominante Polacchi, Cecoslovacchi, Russi, Bielorussi e Ucraini. Dal 1942 venne attivato il campo per le donne, quello per i bambini, non è mai stato costruito, nonostante che tra i prigionieri vi fossero numerosi bambini Ebrei, Bielorussi, e Polacchi. Solamente quelli dagli otto anni in su venivano lasciati in vita, in quanto manodopera utile per il buon funzionamento di questa “fabbrica”, gli altri venivano direttamente trucidati. Majdanek raggruppava tutto ciò che risultava scomodo, dagli oppositori politici ai semplici contadini che si rifiutavano di donare tutti il loro raccolto al Terzo Reich. Solamente dall’autunno 1942 il campo divenne ufficialmente un campo di sterminio, per quelli che venivano considerati da Hitler, dei “sub-uomini”. Cosi venne costruita una perfetta macchina della morte, 5 camere a gas ( solitamente veniva utilizzato Cyklon B), forni crematori, una accanto all’altro, perfettamente costruiti e perfettamente funzionanti, addirittura porte ermetiche costruite dall’azienda tedesca Auert.
Durante il percorso di visita ( proibito ai minori di 14 anni, proprio per l’orridità delle immagini), il museo comincia dalla stanza che conteneva dentro delle bocce il gas. Una accanto all’altra con una precisione, come preciso e mirato fu lo sterminio. Da lì , attraverso un piccolo corridoio, si passa alla camera delle docce, dove tornano in mente le immagini di Schindler List e si possono soltanto immaginare dei corpi nudi, con i cuori galoppanti e con un’unica e incessante domanda, se quest’è la fine. E così fu per 80 mila persone , tra cui 60 mila Ebrei.
Man mano visitando questo museo dell’orrore, ci si rende conto con quale perfezione è stata costruita la distruzione dell’essere umano, mirata soprattutto, dopo una lunga crisi economica, contro la classe più “sconveniente”, operosa e benestante. Le vittime di questo “perfezionismo” non avevano un’età e nemmeno lo stesso credo politico, ciò che li distingueva, fu che in un modo o in un altro facevano paura al Terzo Reich. Nella baracca centrale sono esposti tutti i documenti, accompagnati dalle foto dei detenuti e dei resti di ossa di quelli che non sono riusciti ad attendere la liberazione. Vi sono anche i segni distintivi che ognuno era costretto a indossare e secondo i quali si otteneva un “adeguato” trattamento. Toglie il fiato il viso distrutto di un uomo ( un prigioniero sovietico), che emana solo un grido di disperazione e quella di una piccola bambina, pelle e ossa, morta dopo la liberazione dal campo. Volti, tanti volti che gridano nel silenzio l’orrore che gli è stato inflitto. Vi sono quelle di tutti i deceduti, della resistenza, e anche quelle dei carnefici. Un melange di vittime e di carnefici, ma soprattutto una testimonianza di tante vite sottratte. Si presuppone che il 50 % degli arrivi ebrei fosse stato mandato direttamente al gas. A testimoniare una vita passata, vi restano soltanto dei “corpi” di scarpe ammassate e rinchiuse dentro delle lunghe gabbie
Non si buttava via nulla, solo la vita. Le ossa tritate venivano utilizzate come concime nei campi adiacenti, il grasso umano come sapone. Dai capelli, che oggigiorno sono stretti dentro una gabbia, a testimoniare il passato, si tessevano dei tessuti. Sul freddo tavolo di pietra, situato subito dopo una vasca, venivano estratti dai corpi asfissiati i denti d’oro, e tutti i “beni” utilizzabili. Era una fabbrica, dal magazzino si passava alla vasca, dalla vasca al tavolo, e poi direttamente nei forni crematori, bisognava cancellare ogni traccia. Il forno da lontano non ha un aspetto spaventoso. È proprio l’interno che toglie il fiato al visitatore. Assomiglia più che altro ad un deposito con un grande camino, un camino che quando emanava dalla sua bocca un alto fumo, era un segnale per tutti gli altri detenuti di Majdanek, che la morte era arrivata.
Oggigiorno di Majdanek resta un vago ricordo, che all’occidente è quasi sconosciuto. E’ un ricordo estremamente importante per non permettere che gli “sbagli” del passato vengano ripetuti. Su questo ricordo vegliano soltanto numerosi corvi, talmente tanti da ombrare il cielo quando sono in volo. Sono loro gli unici ad abitare sull’orrore commesso dal passato, un passato che fin’ora ci ha insegnato poco….
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