Esclusivo: intervista ai ribelli libici feriti ospitati in Italia presso l’ICOT di Latina

“Per quarant’anni ci hanno tappato la bocca, ora che siamo liberi possiamo parlare- Parliamo!”- dall’ICOT di Latina, si racconta la guerra.

Di Wirginia Loboda – Braccia ingessate, stampelle, chiodi negli arti e un grande ottimismo. “Sfogliando” le foto digitali delle armi utilizzate dalle forze di Gheddafi, un proiettile da mitragliatrice, che supera in lunghezza quella di una potente mano maschile.  “Questa non è una vera arma. Una vera arma ce l’ha Lei in mano”. Con una penna e le voci, di chi da Misurata, dal cuore della guerra, porta con sé dalla Libia, le ferite da curare e il bisogno di raccontare “l’urlo” della lotta per la libertà.

Una cinquantina di ribelli libici è stata trasferita all’Icot di Latina dall’aeroporto di Ciampino, dopo una lunga attesa, “durata una notte intera”. Un’azione che, nonostante tutto l’impegno del personale dell’azienda ospedaliera Icot, situata a Latina, ha mostrato una serie d’imprecisioni organizzative all’interno del piano di Cooperazione del Ministero di Difesa. I pazienti sono arrivati in ospedale nel weekend sperando in un pronto intervento da parte del personale medico, avvertito quasi all’ultimo momento dell’arrivo dei cinquantadue pazienti da curare immediatamente. Dopo due giorni sono stati divisi, la maggior parte di loro è stata trasferita nei vari ospedali di Roma. Secondo le testimonianze, i libici erano esausti e arrabbiati, cosa totalmente giustificabile, come confermato dagli stessi infermieri. Feriti, stanchi, mal curati, perché in Libia non ci sono più le strutture mediche e, soprattutto, delusi perché speravano di ottenere tutte le cure nel minor tempo possibile, considerando che fra una settimana ritorneranno in patria e alcuni di loro andranno direttamente a combattere. Alla vista di qualcuno pronto ad ascoltarli, superata la prima soglia di diffidenza, si perdono in un fiume di racconti accompagnati da video e foto, estratte direttamente da un sanguinoso campo di battaglia.(guarda lo slide show delle foto)

Alcuni sono degli studenti universitari, altri sono più adulti, ma l’atrocità della guerra li ha toccati tutti. Sono loro a farmi la prima domanda: “ Cosa ne pensi di Berlusconi e di Gheddafi?”, ma la risposta me la da immediatamente uno di loro. “ Ha fatto vedere che ci dava dei soldi ( riferendosi al nostro Presidente del Consiglio), perché gli interessava il nostro petrolio, e poi questi soldi sparivano nelle tasche degli amici di Muammar Gheddafi. Nessuno li ha mai visti.” Poi un altro, aggiunge, “ Gheddafi è amico di tutta quella mafia del Ciad, della Nigeria ecc.”

Dalla politica passiamo direttamente alla realtà drammatica del campo di battaglia. Quanti sono, secondo le ultime stime, i morti nella sola città di Misurata- 1300. Feriti? Ventimila e novemila persone che hanno perso uno o più arti, ” grazie “ all’ottimo addestramento dei cecchini del Colonello. Perché secondo loro una parte della popolazione appoggia ancora il dittatore? La domanda è breve: interessi economici. In realtà sono gli stessi interessi per cui l’Italia e l’intero assetto europeo continuarono per anni a fare degli accordi (chiamiamoli cosi) di cooperazione con Gheddafi, pur essendo perfettamente al corrente della grave situazione dei diritti umani in cui verteva la Libia. Tornando ai due blocchi contrapposti, chi appoggia gli “amici” di Gheddafi? I mercenari stranieri, colombiani, mauritani (…), tra cui molte donne. Il fatto che sono degli stranieri pone in luce tutto il profitto delle politiche razziste contro gli immigrati, messe in atto dal governo del Colonello. Il fatto che anche le donne ne facciano parte, fa venire la pelle d’oca. Mohamed, un giovane studente di Comunicazione, mostra un video, in cui i soldati di Gheddafi, sfogano tutta la loro ferocità su un uomo di colore. Sono tanti, lo accerchiano, e poi colpiscono con le mitragliatrici, partono i calci, e tante parole, dette con una grande aggressività. Non si osa neanche chiedere se l’uomo sia sopravvissuto alle percosse subite.

 Poi c’è la tristezza di vedere un giovane volto di un ragazzo, sotto l’effetto della marihuana, appoggiano al muro del balcone di una casa. È un cecchino. Dopo una giornata di “lavoro”, al tramonto del sole, si sfoga.  Sta piangendo. “ Vengono imbottiti di marihuana, coca, e tutto il possibile…e anche il viagra”- spiegano i ribelli. È una tattica, ben nota nelle scorrettezze della guerra, anche se generalmente le prime sostanze citate sono sufficienti per mettere il combattente in eccitazione adeguata per ammazzare propria madre o violentare la prima donna che incontra per strada, che sia bambina o anziana. Anche questa è una tattica, una giovane donna “svergognata”, sarà “macchiata” e nessuno la sposerà mai.

Passiamo all’altro video e a un’altra storia, ma loro ne avrebbero mille, e vorrebbero raccontarle tutte! I corpi dei soldati di Gheddafi scaricati da una macchina come delle marionette, un bagno di sangue, e un grave senso della brutalità della guerra. È un loro trofeo. Hanno saputo difendersi e per loro è un punto di forza, una violenta prassi verso la sperata libertà.

Mostrano le foto e i video dei carri armati, mandati dal Colonello per far “piazza pulita”. Carri armati contro le mitragliatrici dei ribelli, un elefante contro la formica. “ Francesi, inglesi, italiani- non c’era nessuno ad aiutarci! Siamo rimasti soli”.

L’agitarsi delle persone disperate, sbalordite di fronte al bombardamento di una moschea, che come le Torri Gemelle, muore con tutte le persone che vi sono dentro. “Guarda, guarda!.” Nel frattempo è difficile guardare tutto. Hanno bisogno di mostrare per cosa hanno combattuto e per cosa combatteranno ancora. Intanto, “ i piani alti” decidono di trasferirli. Il loro medico, che li ha accompagnati fin da Misurata, si presenta, e con le lacrime negli occhi dice di voler parlare, perché gli hanno chiuso la bocca per tanti anni e ora che sono “liberi” ( anche se la strada è ancora lunga e ardua, non si smentisce quest’ottimismo che tiene tutti quanti ancora in vita) racconterà tutto. Sfoga la sua disperazione di fronte alla mancanza di strutture, dice “sì, ci sono i medici, anche stranieri, italiani ecc., ma, dove li curiamo se tutti gli ospedali sono stati distrutti?”.

Il pullman li aspetta e mette una certa fretta. Salutano tutti.  Si scusano soltanto di non aver avuto assistenza di un interprete di arabo che li avesse aiutati a raccontare “tutto”. Si scattano le ultime foto. Sono proprio i ribelli loro a prendere l’iniziativa, tutti attrezzati di un cellulare. Si sentono un po’ delle star e sinceramente lo sono. Stanno combattendo per la libertà e sono vivi ancora solo perché ci credono. Forse qualcuno di loro, non se la sente, avrebbe fatto meno di tutta quella brutalità e tutto quell’uccidersi, e darebbe tanto per sfuggirne.

Il personale dell’Icot rimane un po’ scosso da questo breve, massiccio e sconvolgente ricovero dei libici, non capiscono la ragione di questo nuovo trasferimento. Adesso sono loro a fare le domande, perché nessuno gli aveva spiegato finora, chi sono, cosa hanno fatto, e cosa hanno subito, questi ragazzi con bracci ingessati, con le schegge e le viti nel corpo, con cure, interventi che li aspettano in Italia, e una guerra in Libia. Forse è il momento giusto per lasciar parlare chi non l’ha potuto fare per anni, e dare la possibilità di ascolto a chi questa opportunità non è stata data.

Per tutti coloro che sono invisibili agli occhi altrui, e combattono sul campo di battaglia della vita, che sia in guerra o in pace . Per tutti coloro che in questa lotta hanno perso la vita.

Ringrazio l’aiuto del personale dell’ICOT che ha permesso quest’intervista e la disponibilità dei pazienti- ribelli.

Wirginia Loboda

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