In un editoriale apparso oggi su YNet, Moshe Dann spiega con parole semplici perché la costituzione di uno Stato palestinese non solo sarebbe prematura ma è del tutto “immatura”. Dann ricostruisce con poche ma chiare parole la storia dei colloqui di pace tra palestinesi e israeliani e come nel corso degli anni Israele abbia concesso di tutto e di più a partire dal congelamento delle colonie che tanto viene evocato in questi giorni. La risposta palestinese è sempre stata la stessa: NO
Incolpare Israele, come fa l’Onu e la solita Catherine Ashton, del fallimento (l’ennesimo) dei colloqui di pace con i palestinesi non fa altro che dare forza alla solita tattica che fu di Arafat e che oggi è di Abu Mazen, quella di non arrivare mai al dunque e di chiedere sempre di più. Una tattica che però è stata fortemente incentivata dalla linea politica di Obama il quale ha dato ai nemici di Israele l’illusione di poter controllare e sottomettere il Governo israeliano, di poterlo ricattare e portare a più miti consigli. La recente rinuncia di Washington al ruolo di mediatore tra israeliani e palestinesi è la prova lampante che l’illusione obamiana di sottomettere Israele è rimasta, appunto, una pia illusione.
Ora, nel tentativo di rimediare al completo fallimento e di cercare l’ennesima pressione internazionale su Gerusalemme, Abu Mazen chiede il riconoscimento della Palestina da parte della Unione Europea e degli USA, riconoscimento che è arrivato nei giorni scorsi dall’Argentina e che era stato preceduto da quello di Brasile, Paraguay e Uruguay. Ma, paesi latino-americani a parte, né gli USA né l’Unione Europea possono andare contro le leggi internazionali (anche se la Ashton ne sarebbe felice). Infatti a bloccare la strada a un riconoscimento della Palestina c’è un trattato internazionale che stabilisce i doveri di uno Stato indipendente, la “Convenzione di Montevideo”, la quale detta le linee guida che uno Stato indipendente deve rispettare per essere considerato tale e cioè: (a) una popolazione permanente; (b) un territorio ben definito; (c) un Governo stabile; (d) la capacità di relazionarsi con gli altri Stati, cioè di avere relazioni pacifiche con i vicini. La cosiddetta Palestina non soddisfa praticamente nessuno di questi punti. E poi c’è il conflitto interno tra Hamas e Fatah. Chiunque abbia un minimo di intelligenza in zucca sa benissimo che il rischio che tutta la Palestina faccia la fine della Striscia di Gaza è molto forte. Lasciare la Palestina senza controllo internazionale (come avverrebbe con un riconoscimento) equivale a consegnare anche la Cisgiordania ad Hamas, cosa che sicuramente farebbe felice la Ashton ma che non piace a tutti gli altri.
E qui finiscono le strade che portano ad un riconoscimento dello Stato palestinese che non passi per un accordo di pace con Israele e il relativo reciproco riconoscimento. Anche gli Stati Arabi se ne sono resi conto tanto che, stufi dei continui tira e molla dei palestinesi, negli ultimi tempi hanno tagliato i fondi alla ANP mentre trattano con Israele per questioni ben più serie di quella palestinese (l’Iran n.d.r.).
E Obama? Beh, il presidente americano meno amato della storia dagli israeliani (secondo un recente sondaggio il 79% degli israeliani non lo considera amico di Israele), vista fallita la sua tattica, visto l’allontanarsi di alleati storici (l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli EAU ecc. ecc.), è costretto a ritirarsi mestamente e ad ammettere che “non può esercitare alcun controllo su Israele” come invece aveva fatto capire (illudendoli) ai nemici dello Stato ebraico.
Cosa succederà adesso? Per prima cosa si spera che finalmente il Presidente americano si concentri su problemi seri come l’Iran e la situazione in Libano (ma le premesse non sono buone), e poi che invece di cercare di sottomettere la volontà israeliana rivolga le sue attenzioni sulle richieste palestinesi cercando di renderle “accettabili” nel rispetto delle “relazioni di forza”, come ogni buon diplomatico fa di solito quanto si prefigge di negoziare tra parti in conflitto. Lo capirà Obama? Onestamente non ci crediamo ma, come si suol dire, la speranza è l’ultima a morire.
Sharon Levi